E forse è proprio questa la funzione segreta della vacanza: non regalarci luoghi nuovi, ma mostrarci chi siamo quando il tempo si allenta e non dobbiamo interpretare nessun ruolo preciso.
Partiamo da una confessione: noi due abbiamo modi diametralmente opposti di vivere il viaggio. Andrea lo vive non di rado come una costrizione perché ama stare in casa, costruire abitudini e avere una certa architettura a sostegno della quotidianità; ama prendersi cura delle sue piante e leggere e scrivere nei suoi spazi ritualizzati. Per lui la partenza è piacevole quando è un’eccezione. Maura, al contrario, potrebbe passare tutta la vita in giro per il mondo, nelle camere d’albergo e nelle stazioni dei treni, e il vero dramma scatta nel momento in cui deve riempire per l’ultima volta le valigie alla volta di casa. In effetti, esistono molti modi per vivere il viaggio, e questi sono influenzati dalle caratteristiche personali ma anche dalla cultura, dall’ambiente in cui si è cresciuti, dal modo in cui si è stati educati. Per gli italiani le vacanze sono sempre state un fatto culturale, soprattutto da quando (a metà del Novecento) sono diventate un fenomeno di massa: con il boom economico e il turismo balneare, la villeggiatura ha assunto i contorni di un rito collettivo, specchio di un Paese che si riscopriva desideroso di riposo, quiete ed evasione.
Da allora, partire non è mai stato soltanto “andare via”, ma mettere in scena un’idea di sé, quasi fossero diapositive sociali: famiglie intere stipate nelle Fiat 600 verso la riviera romagnola; giovani con lo zaino in spalla e guide consunte tra le mani; villaggi turistici e campeggi; crociere e voli low cost. Ogni decennio ha riscritto il suo significato del viaggio, fino a trasformarlo in quel che oggi rappresenta un’esperienza da pianificare, documentare e condividere con una certa ossessività. Eppure, nonostante questo continuo spettacolo di sé, la vacanza continua a custodire un potenziale sovversivo: è il momento in cui, lontani dalla nostra routine, il tempo si deforma e il quotidiano perde consistenza. Ci accorgiamo che il nostro io, così saldo nelle sue abitudini, è in realtà fragile come un castello di sabbia costruito sulla riva. C’è sempre un momento – una coincidenza, uno smarrimento, un incontro inatteso – in cui il copione vacanziero si incrina e appare il vero significato del viaggio: una soglia, più che una fuga; un esperimento identitario per chi vuole imparare a osservarsi da fuori. Ogni reazione al viaggio racconta in fondo qualcosa di più generale: è una sorta di termometro emotivo, un’occasione in cui misuriamo il grado di elasticità della nostra identità.
Dietro questa estetica del movimento programmato, infatti, ci sono quelle che Michel Foucault definiva eterotopie: quei luoghi separati, spazi altri che riflettono e al tempo stesso rovesciano il mondo ordinario. La vacanza, nel suo piccolo, è un’eterotopia temporale: sospende il ritmo produttivo, interrompe le abitudini, ci fa abitare un altrove che non è solo geografico ma esistenziale. Ci muoviamo tra hotel, spiagge, aeroporti – luoghi anonimi e standardizzati – ma proprio lì il nostro io diventa più poroso, meno difeso. Più aperto all’incontro con l’ignoto. In questo senso la vacanza è una soglia, un dispositivo che ci mette di fronte alla precarietà della nostra identità. Basta un imprevisto, uno smarrimento, un incontro inatteso perché il copione vacanziero si incrini e ci riveli: lontani dalle coordinate abituali, siamo costretti a fare i conti con chi siamo quando non dobbiamo essere nessuno. E forse è proprio questa la funzione segreta della vacanza: non regalarci luoghi nuovi, ma mostrarci chi siamo quando il tempo si allenta e non dobbiamo interpretare nessun ruolo preciso. Ogni valigia disfatta al ritorno porta con sé una consapevolezza importante: siamo più complessi di quanto crediamo, e il viaggio – anche il più banale – ci ricorda che siamo creature in movimento, che il nostro io è un cantiere sempre aperto.